Capelli tirati indietro dal gel. Ciuffo ribelle che copre la fronte. Viso impomatato. Il Re del Rock and Roll che ha influenzato la musica internazionale con la sua presenza scenica e le movenze da ballerino professionista. È lui: Elvis Presley.

Austin Butler assomiglia a Elvis Presley. Lo stesso taglio di capelli, gli stessi atteggiamenti e la stessa velleità di scalare la roccia dell’eternità per lasciare un’impronta indelebile.

Una buona stesura del soggetto per coronare il bellissimo sogno del musicista che ha rivoluzionato i generi del country e del blues tra i tanti. E dell’attore che vanta ben trentuno film girati a partire dalla fine degli anni ’50.

Eppure, qualcosa non va per il verso giusto. Come se il regista avesse preferito adottare la filosofia iperbolica di un personaggio che ha vissuto nell’esagerazione più pura. Una philosophy, questa, che non bilancia il lungo minutaggio del film (smodato anche questo). E, anzi, ne condiziona fortemente la buona riuscita.

Dopo ben ventuno anni dal suo meraviglioso Moulin Rouge, Baz Luhrmann rimette piede sulla Croisette di Cannes con la storia dell’icona della cultura musicale degli anni ’50 – ’70. Dalla sua ascesa, a quando ancora alle prime armi suonava nei club, fino alla sua fama mondiale. Attraverso il tormentato rapporto con il suo manager Colonello Tom Parker (Tom Hanks) e la sua relazione amorosa con la moglie Priscilla Presley (Olivia Dejonge).

Confusione farcita da un montaggio eccessivamente enfatizzato in fase di post-produzione. È questa la prima impressione che si (intra)vede fin dai primi frame. Dalle scene iniziali, in cui il rallenty reclama a gran voce una visione pressoché disturbante di alcuni passaggi fondamentali (Elvis bambino entra in chiesa e, trascinato dalla musica country, sembra essere più attraversato da una linfa demoniaca che divina), e dal modus operandi sul film stesso. Un montaggio troppo divisorio, con tantissimi momenti proiettati tutti insieme sul grande schermo che turbano lo spettacolo visivo invece di captare la concentrazione dello spettatore.

E le varie sequenze, assemblate in maniera troppo “artificiale” come fosse un’imponente costruzione cinematografica, sgretolano la buona interpretazione del bel Austin Butler che rimane come anestetizzato per tutta la durata della pellicola. Come se le pasticche assunte nel corso dei suoi successi fossero state le sue vere amanti, ingerite quando ne aveva bisogno e man mano trasformate in desiderio lacerante da cui non poteva più separarsene.

Più che Austin Butler ‒ che comunque ha ricevuto il plauso della critica per la sua interpretazione ‒ sconvolge la performance impeccabile di Tom Hanks, che si cala perfettamente nella parte del cattivo manager dell’industria dell’intrattenimento che pensa solo ai suoi profitti con subdoli e sporchi ricatti. E le due carriere lavorative, una losca e l’altra soffocante, camminano di pari passo come due anime gemelle che si prendono per mano con il coltello in tasca. Per ritrovarsi vis-à-vis, sul finire della storia, con lo scheletro vestito di nero che fa visita al giovane The King, appena quarantaduenne, dopo un ultimo saluto alla sua ex moglie e alla figlioletta avuta con lei.

C’è un unico momento apprezzabile nel biopic, degno di un vero e proprio omaggio alla star internazionale: le immagini d’archivio in bianco e nero, intervallate dalla voce fuori campo del Colonello Tom Parker, ripercorrono il suo ultimo concerto due giorni prima di morire, in cui Elvis Presley ‒ visibilmente provato e gonfio in volto, dovuto probabilmente al troppo abuso di farmaci ‒ non aveva abbandonato la sua innata dote canora. E aveva dato il massimo, come sempre in tutti i suoi concerti.

Elvis Presley era riuscito nel suo intento: essere scolpito nell’eterno immaginario collettivo.

VOTO: 5

Martina Corvaia – RADIO BLABLA NETWORK NEWS – 20/06/2022