Una borsa Louis Vuitton alla moda. Un umile lavoratore che tenta di nascondere la sua ossessione per i soldi. Un doganiere indebitato fino al collo. Uno spietato aguzzino. Una scaltra truffatrice. Una bellissima escort e un giovane immigrato che escogitano uno stratagemma per sciacquare via la violenza del sadico marito che picchia la moglie.

È questo Il nido di vipere, il film d’esordio scritto e diretto dal regista sudcoreano Kim Yong-Hoon. Un gioco al massacro per inebriare le narici con l’odore della grana. Un incastro di diverse trame narrative intrecciate abilmente per tessere un tessuto pregiato. Un tessuto dal sapore di veleno e di sangue, indossato da feroci malviventi che uccidono le loro prede senza pietà.

Beasts Clawing at Straws ‒ titolo originale tradotto in Bestie che si aggrappano a tutto ‒ basato sull’omonimo romanzo dell’autore giapponese Keisuke Sone del 2011, è un graffiante thriller con elementi della commedia nera che segue le terrificanti vicende di un gruppo di spietati assassini che si macchiano la faccia di un colore purpureo pur di impossessarsi di un’ingente somma di denaro. Con qualche malcapitato che pensa più al bene della famiglia piuttosto che fuggire e far perdere le proprie tracce. C’è chi, come Jung-Man (Bae Seong-woo), sente il bisogno di occuparsi della madre malata e della moglie. E c’è chi, come Young-Seon (Jin Kyeong), affetta senza scrupoli parti del corpo umano con una certa maestria provocatoria.

Il nido di vipere è un neo-noir che si incanala verso il cinema sudcoreano contemporaneo. Tra uno script dai toni grotteschi e sentori del pulp diviso in capitoli alla maniera tarantiniana ‒ fra tutti Pulp Fiction (1994), uno dei capolavori che ha influenzato il cinema moderno ‒ che guarda con grande ammirazione al cinema dei Fratelli Coen e alla loro perla cinematografica Non è un paese per vecchi (2007). In cui la sete di cruore è tanta e il bottino è ancora più succulento. E Il nido di vipere incasella bene i vari tasselli di una narrazione audiovisiva ben inquadrata dalla cinepresa di Kim Yong-Hoon. Come pezzi di un puzzle che distinguono un ascendente gioiellino cinematografico per il cinema contemporaneo.

Tuttavia, il gioco di incastri che dal climax a inizio film si snoda nell’intricato universo sudcoreano era stato già adoperato dall’enigmatico thriller psicologico-romantico The Handmaiden del 2016 ‒ distribuito con il titolo di Mademoiselle ‒ del famoso director Park Chan-wookche interseca magistralmente la messa in scena della storia per tenere lo spettatore con il fiato sospeso fino al plot twist.

Eppure, Il nido di vipere non si nobilita a un grande capolavoro inedito nella storia del cinema. Di atrocità, omicidi, primi piani inquadrati con una certa raffinatezza stilistica se ne vedono tanti sul grande schermo. È proprio il piano estetico a beneficiare della piena riuscita della pellicola. Il modo di coinvolgere empaticamente lo spettatore, sapere chi l’avrà vinta nel virulento bagno di crudeltà sanguinaria ‒ senza l’avida violenza tipica del cinema coreano come nei film The Villainess di Jeong Byeong-Gil del 2017 o del capitolo della trilogia della vendetta Old Boy del già citato Park Chan-wook del 2003 ‒ nella dura lotta del Vivi o muori. Una messinscena creata per il puro scopo di intrattenere senza distogliere lo sguardo. Senza strafalcioni nel minutaggio contenuto e con un bel cast a dir poco sorprendente che si circonda di ottime performance.

VOTO: 7.5

Martina Corvaia – RADIO BLABLA NETWORK NEWS – 15/09/2022