Molti romanzi hanno la particolarità di descrivere #personaggi e #personagge che, per vari e comprovati motivi, si trovano a vivere #border_line tra una pallida onestà e la voglia di vivere in una situazione clandestina, di divieto. Sai già che a un certo punto raggiungeranno quell’unico bivio fondamentale dal quale non si torna indietro. Dopodiché la storia, spesso scritta comunque bene, finisce come deve finire e cioè con una redenzione o una caduta totale negli abissi.

Rispetto a questo schema, “Furia” fa un upgrade di almeno sette livelli rispetto alla norma. I protagonisti sono certamente in bilico tra una quotidianità mediamente serena e un campare in mezzo ad affari più che altro loschi (e dire #loschi, talvolta, è pure un eufemismo). Solo che il loro contesto li porta a superare prove continue al punto che il #sopravvivere diventa lo scopo più importante. Ne deriva un dipanarsi della trama dove regnano dosi pantagrueliche di adrenalina che si riversano sulle situazioni descritte da Martina. Si ha paura di girare pagina, come qualche volta si teme l’incognita presente dietro l’angolo. Perché hai paura che possa succedere l’irreparabile all’interno del plot.

Il titolo è leggibile su piani diversi. Rappresenta il cognome di questi tre maschi (Silvan e i figli Carmine e Teo) che stanno al centro di tutte le vicende ma rappresenta anche il modo con il quale loro tre cercano di mordere quella vita che li ha resi privi di moglie (per Silvan) e madre (per Carmine e Teo). I tre rappresentano i vertici di un triangolo centrifugo, cioè non ci pensano minimamente a una coesione per far fronte alle avversità. Non esiste il gioco di squadra perché ognuno fa squadra a sé. Il lutto che li ha colpiti ha aumentato le distanze, le incomprensioni ma soprattutto i #non_detti creando un sovrumano silenzio nei rapporti interfamiliari.

In tutto questo avvicendarsi di fatti torbidi e non solo sussiste un filo rosso costituito dalla pallacanestro (grande passione dell’autore, se non sbaglio). Il basket è anch’esso un personaggio, forse è anzi quel mezzo con il quale (direttamente o indirettamente) è possibile emanciparsi e trovare un’altra strada. La sua presenza non è messa lì a caso ma con un fine specifico.

Martina infonde alla sua vicenda un ritmo particolarmente indiavolato. Anche quando le scene rappresentate dovrebbero essere tranquille, ecco che ti accorgi di quanto #fuoco covi sotto la cenere.

E’ bravo poi a non rendere prevedibile tutta la sua costruzione narrativa, lasciando a chi legge decidere il completamento dell’agnizione (il termine è decisamente esagerato ma… ci siamo capiti, vero?). Dubito anche che, a fronte di domande specifiche sul finale, l’autore possa/voglia rispondere in modo ‘nitido’.

Ma fa bene!

Enrico Redaelli – RADIOBLABLANETWORK NEWS