Capelli biondo platino. Grandi occhi azzurri. Rossetto rosso. Statura snella. Sorriso smagliante. A qualcuno piace caldo di Billy Wilder ‒ titolo per altro allusivo a una particolare parte intima del corpo ‒ uno dei film più scandalosi della sua carriera lavorativa. Lei è Norma Jane, conosciuta dal grande pubblico come Marilyn Monroe.
Blonde scritto e diretto dal regista australiano Andrew Dominik, targato Netflix e presentato in concorso alla 79ª edizione del Festival del Cinema di Venezia, parla tanto della bella diva dei fervidi anni ’50 – ’60. Dall’infanzia traumatica, con una madre malata che tenta di toglierle la vita, all’orfanotrofio e alla famiglia affidataria fino ad arrivare alla sua ascesa e discesa con la morte in agguato che la attende dietro la porta. Diversi artifizi cinematografici si susseguono in Blonde: il binomio colore/bianco e nero che (ci) riporta indietro nel tempo e (ci) fa rivivere il presente, carrellate in avanti e indietro, primi e primissimi piani, flashback, riferimenti metacinematografici ai suoi film e alle prime in sala, dimensione onirica che porta in alto la sua fantasia.
E la realtà filtrata attraverso la lente di ingrandimento di una bellissima donna costretta a scendere a compromessi per addentrarsi nella misteriosa e oscura sfera della recitazione. E non mancano le varie scene sessualmente esplicite con gli amanti ‒ tra cui il Presidente John Fitzgerald Kennedy ‒ ménage à trois e qualche scena indecente che farà drizzare i capelli.
Tanto cinema tecnico adoperato da Andrew Dominik che si perde, tuttavia, in qualche buco narrativo che lascia il tempo che trova. Per certi versi, accettabile nella dilatazione dei tempi nella finzione filmica ma ‒ talvolta ‒ si rischia di complicare gli snodi narrativi funzionali alla storia. E Blonde, purtroppo, ci casca. Senza una ragione precisa. Senza chiarire diversi points nella sua tormentata vita che sospendono qualche domanda.
È sempre difficile raccontare le diverse sfumature della vita di una delle attrici più celebri della storia del cinema, famosa per la sua immagine da “bionda stupida” ereditata dallo stereotipo del tempo ‒ quando in verità di intelletto ne aveva da vendere ‒. Ci aveva già provato, ad esempio, Michelle Williams dieci anni fa in Marilyn (2012). Eppure, Blonde tenta di varcare la soglia del personaggio per comprendere non chi era Marilyn Monroe. Ma chi era Norma Jane. Nel suo lungo minutaggio che inquadra un racconto troppo romanzato per il grande schermo. Con qualche effetto speciale di troppo che volentieri poteva essere evitato. E una visione a tratti disturbante che infuria parecchio gli animi. Tanto più se si parla di una versione filmica adattata dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates del 1999.
Blonde è un biopic che nasce agli albori di una fruizione pubblica su piattaforma digitale che tale deve rimanere. Per la costruzione tecnico-cinematografica troppo enfatizzata della narrazione audiovisiva e per sensibilizzare tutto il pubblico adulto a frame sconcertanti. Aborti, visioni shock, nudo femminile. E tantissime lacrime che sprofondano nella depressione fatta di pasticche e overdose. Marilyn Monroe è stato un personaggio femminile rivoluzionario per la sua generazione. Norma Jane è stata una donna con tanti desideri senza esaudirne nessuno. E brava l’attrice cubana Ana de Armas (Marilyn Monroe) a calarsi bene nei panni della star di Hollywood nella solitudine dissociata tra sfera pubblica e privata, anche se a volte pecca in scene troppo recitate e a tratti poco credibili.
VOTO: 5
Martina Corvaia – RADIO BLABLA NETWORK NEWS – 08/09/2022